Se il greenwashing degli ultimi anni ci ha insegnato qualcosa, è che quando un trend diventa mainstream, molte aziende preferiscono la scorciatoia dell’etichetta rispetto al lavoro vero.
Aziende che dipingevano di verde i loro prodotti senza cambiare nulla di sostanziale, sperando che i consumatori non andassero oltre la superficie.
L’AI washing segue lo stesso copione: invece di “eco-friendly” ora l’etichetta magica è “AI-powered“.
Stessa strategia, diverso colore di vernice. Da quando ChatGPT è esploso sulla scena, il nostro settore si è trasformato in un parco divertimenti dell’AI washing. Come CEO di una software house nel mondo hospitality, osservo questa corsa all’etichetta dorata con un misto di divertimento e preoccupazione.
Ogni settimana arrivano sul mercato annunci di “rivoluzioni AI-powered” che, a un occhio allenato, sono semplicemente i soliti applicativi di sempre ma che incapsulano un LLM in qualche schermata.
Si vedono aziende che hanno “rivoluzionato” il loro prodotto con l’intelligenza artificiale un po’ in tutti gli ambiti. Nella maggior parte dei casi scopriamo strategie di marketing più creative della tecnologia sottostante, infatti collegare un motore AI ad un software esistente, usando i principali modelli presenti sul mercato è decisamente facile.
OpenAI, Anthropic,Google, Meta, Mistral, DeepSeek solo per citarne alcuni mettono a disposizione API che possono essere interrogate per fornire output che ad un primo acchito fanno stupore, ma poi si rivelano inevitabilmente superficiali e scollegati dai reali bisogni operativi dell’utente.
Anche nel mercato dell’hospitality tech stiamo assistendo a una delle più grandi operazioni di “chirurgia estetica” della storia del software.
Aziende che per anni hanno venduto “gestionali ERP” ora vendono “ecosistemi AI-driven che ottimizzano tutto”.
Per le aziende la pressione è comprensibile intendiamoci, com’è comprensibile anche la tentazione di portare sul mercato innovazione con bassa fatica implementativa.
Dall’altro canto gli hotel manager, bombardati da articoli che parlano di rivoluzione dell’intelligenza artificiale, iniziano a inserire la richiesta nelle loro RFP. “Il vostro software include funzionalità AI?” è diventata una domanda frequente come “supportate la fatturazione elettronica?” di qualche anno fa.
Ma l’intelligenza artificiale vera ha requisiti precisi che molti nel nostro settore sottovalutano.
Servono enormi dataset per l’addestramento, competenze specialistiche rare nel mercato, infrastrutture costose per il funzionamento. Non è qualcosa che si aggiunge al software esistente come una patch. Invece la scorciatoia di collegare le API di un Large Language Model è allettante, perché con poco lavoro tutto lo stack tecnologico diventa “intelligente”.
Quando lavoravo per alcuni colossi della Silicon Valley, con le loro codebase legacy, era prassi ogni tot tempo andare a ripulire le interfacce, una bella passata di vernice a coprire un sistema che celava un backend vetusto e scricchiolante.
Basta scrivere l’annuncio ufficiale di lancio del prodotto, ed ecco a voi la nuova versione del software, pronta per essere messa a catalogo.
I segnali che non mentono
Per capire quali sono i software che stanno cercando di cavalcare questa onda AI per coprire le proprie magagne bisogna sviluppare un occhio critico e una certa consapevolezza. Quindi è lecito domandarsi: come si manifesta l’AI washing nel nostro settore? I segnali sono ricorrenti e prevedibili.
Il primo è la velocità sospetta degli annunci.
Aziende che hanno un prodotto statico da anni, che hanno impiegato anni per implementare API di base improvvisamente rilasciano “sistemi di machine learning avanzati” in pochi mesi. La timeline tecnologica non torna.
Il secondo pattern è la genericità delle comunicazioni commerciali.
Promesse vaghe su “algoritmi intelligenti che ottimizzano i ricavi” senza mai specificare come, con quali dati, con quale accuratezza. Quando un fornitore non riesce a spiegare tecnicamente cosa fa la sua AI, probabilmente è perché non c’è molto da spiegare.
Il terzo indicatore è l’assenza di metriche concrete.
La vera intelligenza artificiale produce risultati misurabili: percentuali di accuratezza nelle previsioni, miglioramenti documentati negli indici alberghieri, ottimizzazioni verificabili dei processi.
Quando un’azienda del nostro settore sceglie la strada dell’AI washing, sta facendo una dichiarazione involontaria sulla propria capacità di innovazione.
È il sintomo di un team di prodotto che ha finito le idee concrete. Invece di concentrarsi sui problemi reali che affliggono gli hotel, sull’ottimizzazione dei processi esistenti, sul miglioramento dell’usabilità dei sistemi, si preferisce la scorciatoia dell’hype tecnologico.
È più facile attaccare un’etichetta AI che ripensare davvero il proprio prodotto.
Questo approccio rivela aziende che lavorano più per impressionare durante le demo che per risolvere problemi concreti. Non riescono a far evolvere significativamente il loro software, quindi prendono l’ultimo trend tecnologico e lo incastrano nel prodotto, non perché migliori qualcosa, ma perché fa scena.
Le conseguenze a lungo termine sono preoccupanti. Gli hotel che si legano a questi fornitori si ritrovano partner tecnologici senza una visione chiara del futuro del settore, che rincorrono i trend invece di anticiparli.
L’effetto sul prodotto finale
Si potrebbe pensare che aggiungere un’integrazione con un LLM, poiché è relativamente semplice da implementare, possa non essere un male. L’azienda presenta una nuova funzionalità, il cliente è contento perché qualcosa si muove nel software, insomma: win-win, no?
Non proprio.
Da ingegnere informatico, conosco una regola fondamentale: ogni funzionalità aggiunta porta un bagaglio nascosto. Manutenzione del codice, testing per ogni release, documentazione da aggiornare, formazione del team di supporto, complessità crescente dell’interfaccia utente.
Il costo reale non è quello iniziale di sviluppo, ma quello che si paga negli anni successivi.
Quando aggiungi funzionalità non strettamente necessarie ma solo per ragioni di marketing, senza un’integrazione organica nel sistema, stai accumulando debito tecnico.
Il prodotto diventa meno coerente, più complesso da mantenere, più difficile da evolvere. È come costruire una casa aggiungendo stanze a caso: l’effetto immediato può sembrare positivo, ma prima o poi la struttura crolla.
Un software maturo si riconosce dall’armonia delle sue componenti. Se l’intelligenza artificiale sembra un innesto forzato, probabilmente lo è. Se invece nasce dalla necessità di risolvere problemi specifici e si integra naturalmente nel workflow, allora è un’implementazione seria.
La chiave è il product-market fit dell’AI: deve esserci una corrispondenza logica tra il tipo di intelligenza artificiale implementata e il miglioramento concreto dell’esperienza utente.
In Slope abbiamo scelto deliberatamente un approccio diverso.
Stiamo sperimentando con l’intelligenza artificiale, ma dietro le quinte, lontano dai riflettori del marketing. Creiamo prototipi, misuriamo performance su dati reali, testiamo applicazioni concrete sui workflow dei nostri clienti. L’obiettivo è integrare AI solo quando saremo certi che sia matura per la produzione e che porti valore misurabile agli albergatori.
Questa strategia ha un costo. Perdiamo qualche trattativa con hotel che vogliono “l’AI subito”. Alcuni prospect ci guardano con sospetto quando spieghiamo che preferiamo la sostanza alle etichette. Ma crediamo sia l’unica strada per costruire un prodotto eccellente nel lungo periodo.
Il rischio di cedere alla pressione del mercato e aggiungere funzionalità AI superficiali è alto. Molte software house cadono nella tentazione di accontentare l’ufficio marketing e i clienti impazienti. Ma lavorare guidati dalla FOMO è limitante: di fretta non si costruisce nulla di duraturo.
Tanto non durerà. Il futuro oltre l’hype
La buona notizia è che questa fase di euforia collettiva si assesterà.
L’AI washing diminuirà nei prossimi anni perché l’intelligenza artificiale diventerà una commodity, non più un differenziatore di marketing.
Sarà come il cloud computing oggi: siamo sempre di meno noi software house che facciamo leva sulla nostra esclusività di essere “software cloud-native” perché si dà per scontato (NB: anche se di questo ne parleremo sicuramente in un altro articolo) .
Allo stesso modo, l’AI diventerà invisibile, integrata naturalmente nei processi senza bisogno di annunci trionfali. Ed è proprio quando una funzionalità diventa invisibile, trasparente agli utenti che produce realmente valore, perché diventa un ingranaggio ben oliato di una macchina che funziona bene e si incastra bene.
Il mercato alla fine premierà la sostanza.
Le aziende che oggi fanno AI washing probabilmente saranno ancora indietro tra cinque anni, mentre chi investe seriamente nella tecnologia emergerà naturalmente.
Per noi che sviluppiamo software, la sfida è resistere alle tentazioni del marketing facile e continuare a concentrarsi sui problemi reali: interfacce più usabili, integrazioni più stabili, processi più efficienti.
Perché l’intelligenza artificiale è davvero uno strumento rivoluzionario. Ma come tutti gli strumenti potenti, crea valore solo se usato bene, al momento giusto, per risolvere i problemi giusti.
Non per vincere gare di chi grida più forte “abbiamo l’AI”.


